Individuare quali siano i prodotti e le produzioni di una terra di confine come il Friuli Venezia Giulia non è facile. Gli anni di una storia tormentata e diversa, hanno inciso sulla cultura alimentare delle popolazioni di questo lembo d’Italia, posto all’estremo nord-est la cui tragedia, ieri, e la cui fortuna oggi, sono rappresentati da un triplice tracciato confinario oggetto di continue e periodiche variazioni.
A Pordenone, la gastronomia tipica della bassa si appoggia su una cucina che offre piatti semplici, ispirati a ricette di origine friulana o “contaminati” dall’impatto con il vicino Veneto. Tra i primi troviamo le minestre di orzo e fagioli, di riso con patate o con piselli. Tra i secondi: frittate, pietanze a base di carni di animali da cortile e selvaggina, accompagnate dal formaggio asino di antica origine (le forme vengono passate, per parecchie settimane, in una salamoia di siero e panna) e polenta. Oltre al baccalà, il pesce esitato con più frequenza è la trota (il Friuli Venezia Giulia ne è il più importante produttore italiano). Durante l’inverno, viene confezionato uno degli insaccati di carne suina più particolari: la bondiola o saùc (macinato di cotechino, lingua e muscoli interni, impastati, marinati nel vino rosso, aromatizzati e inseriti nella vescica del maiale). Nelle valli montane, complice soprattutto il lungo isolamento geografico, si è mantenuta viva la tecnica di produzione di alcune gustose preparazioni alimentari: la pitina (una polpetta di carne macinata aromatizzata con erbe di montagna e affumicata) e la brusaule (strisce di carne secca, pepata).
Nell’Udinese, da tempi remoti, il re della tavola era il porco, allevato in ogni famiglia e le cui carni insaccate costituivano la scorta proteica principale per tutto l’anno. Non mancano i piatti dove si faceva uso di altri animali ruspanti: coniglio, gallina, pollo, tacchino, faraona, anatra e oca (volatile al centro di una vera e propria operazione di rinascita gastronomica). La carne, comunque, come molti dolci, rappresentava il lusso delle feste. Negli altri giorni si preparavano piatti a base di erbe spontanee, funghi, verdure, frutta, cereali (soprattutto zuppe e minestre), formaggi (con l’onnipresente Latteria e il famoso frico) e uova. La famiglia si riuniva attorno al tagliere su cui era rovesciata una fumante polenta dorata. Con le rape inacidite sotto la vinaccia si produceva e si produce la brovada che, cotta a lungo con il cotechino, permette di gustare un piatto un po’ ruvido forse, ma unico e particolare, a caccia del riconoscimento europeo di qualità. Pesci e anguilla (il bisato in speo è una vera e rara ghiotteria) comparivano con regolarità sulle tavole dell’entroterra lagunare. In Carnia, la massima prelibatezza è racchiusa nei cjalcions (specie di ravioloni di pasta ripiena), mentre le Valli del Natisone sono conosciute per la produzione della dolce gubana.
La cucina goriziana, infine, ha avuto per molti decenni uno sguardo rivolto a est. Grazie alle contaminazioni con quella dei popoli confinanti (austriaci, sloveni), diversi tra loro per lingua, usi, costumi e tradizioni, si è arricchita di sapori esclusivi. I traffici con Venezia e il suo mondo hanno influito sulla preparazione di minestre e risotti; sul grande uso della polenta e del pesce, re incontrastato della cucina gradese (da assaggiare, almeno una volta, il tipico boreto). I piatti forti sono costituiti dalla selvaggina (fagiano, lepre, capriolo e cinghiale) e dalle preparazioni a base di carne suina (antipasti, grigliate, bolliti e prosciutti cotti nel pane). Tra i primi piatti eccellono i blecs (pasta fatta in casa e tagliata a strisce), esaltati dai sughi d’arrosto e selvaggina; gli gnocchi di semolino e patate ripieni di susine e conditi con burro fuso e cannella; le minestre di verdure. Le frittate con le erbe sono ancora oggi il vanto della tradizione contadina. La “rosa di Gorizia”, il radicchio locale, si abbina semplicemente con le uova sode. Essenzialmente ispirati alla tipicità mitteleuropea sono invece i dolci: gli strudel di mele, ciliegie, pinoli e uvetta; le profumate crostate, le ottime palacinche e la notissima putizza (pasta ripiena e arrotolata).
Su tale robusto canovaccio, le genti friulane, hanno creato una gastronomia sopraffina, in grado di far apprezzare la tradizione di queste terre a ogni genere di moderno palato e sensibilità culinaria."
(Adriano Del Fabro, 2009)
Per quanto riguarda la cucina triestina, Trieste è una città di frontiera e come tale è stata una città di passaggio di merci, uomini e abitudini alimentari. Ed è per questo che anche la gastronomia triestina è caratterizzata da molti nomi dal suono straniero, di ascendenza tedesca o slava. Tuttavia questi nomi non indicano copie o importazioni di specialità culinarie estere, ma ricette originali che spesso, vengono rielaborate e consumate solo a Trieste. Essa è un connubio perfetto tra i sapori mediterranei e quelli mitteleuropei: i piatti di pesce presentano le caratteristiche della gastronomia della costa Adriatica (in particolar modo di Istria e Dalmazia) mentre quelli di carne ricordano i gusti dei Paesi in cui scorre il Danubio. Mady Fast nel libro “Mangiare triestino” la descrive come una fusione di varie componenti che riflettono la diversità delle genti che si sono avvicendate nella zona.
(Mady Fast, 2012)