Il parere conclude che il potenziale di trasmissione tramite queste vie è più basso rispetto ad altre (ad esempio il trasferimento di maiali domestici vivi o il contatto tra cinghiali selvatici e maiali domestici ) ma il rischio non può essere escluso completamente.
E’ stato sviluppato un modello per classificare il rischio connessi alle diverse vie – o matrici – usando i risultati di un esercizio di elicitazione della conoscenza di esperti (EKE). L’EKE si è basato su evidenze provenienti da una ricerca in letteratura e da una consultazione pubblica.
Diciassette prodotti e matrici sono stati valutati e classificati per la loro probabilità relativa di venire contaminati dal virus nelle zone interessate dalla PSA e di infettare i suini in zone indenni. I mangimi composti (pastone, pellet), gli additivi per mangimi e i veicoli contaminati sono risultati essere in cima alla classifica.
Per ridurre il rischio che il virus venga introdotto negli allevamenti suini tramite mangimi, materiali da lettiera e veicoli da trasporto, il parere scientifico raccomanda la stretta osservanza dei processi di decontaminazione e di immagazzinaggio del caso per tutti i prodotti movimentati da zone interessate dalla PSA a zone indenni.
Greenwashing significa convincere i consumatori di essere un brand attento alla sostenibilità, mentre in realtà non è così. Essenzialmente, vuol dire "condire" i propri prodotti in salsa green senza meriti, per indurre i potenziali acquirenti ad acquistare qualcosa di "buono per il pianeta", anche quando non lo è. Un’operazione di marketing, dunque, volta a far credere che un’azienda sia molto attenta all’ambiente, quando, in verità, l’unico obbiettivo è il profitto.
Il termine "greenwashing" è stato usato per la prima volta da un attivista americano per denunciare una pratica molto comune negli alberghi, che facevano leva sul senso di responsabilità ambientale dei clienti chiedendo di non mettere a lavare la biancheria ogni giorno. L’intento, però, era tutt’altro che ridurre l’impatto della struttura sull’ecosistema: le motivazioni, infatti, erano esclusivamente (o prevalentemente) di tipo economico. Un esempio semplice, ma perfetto per descrivere che cos’è davvero il greenwashing.
Ma quindi, come lo riconosciamo? Capire se ci troviamo davanti a un tentativo di greenwashing è più semplice di quanto si possa pensare. Le aziende che davvero puntano alla sostenibilità e per cui la salvaguardia dell’ambiente è un vero valore, infatti, sono generalmente molto trasparenti. Basterà dare un’occhiata a siti ed e-commerce per accorgersene. Al contrario, le aziende che cercano di dare forzatamente una veste green ai propri prodotti utilizzano molto accuratamente le parole, ma ben poco i fatti.
A fine febbraio 2021 con un leggero ritardo rispetto alla consueta uscita annuale, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) e il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC) hanno pubblicato il rapporto annuale sulle zoonosi, agenti zoonotici e sui focolai epidemici di malattie a trasmissione alimentare, relativo ai dati raccolti nel 2019, da 36 Paesi europei (28 Stati membri UE e 8 non-membri).
Nell’uomo, le infezioni da Campylobacter spp. si confermano la malattia più frequentemente riportata, rappresentando da sole il 50% di tutte le segnalazioni (220.682 casi confermati). Seguono le infezioni da Salmonella spp. (87.923 casi confermati), da Escherichia coli produttore di Shigatossina (STEC) (7775 casi confermati) e da Yersinia enterocolitica (6961 confermati).
Listeriosi (2621 casi confermati) e infezioni da West Nile virus (WNV, 443 casi) sono le zoonosi che danno esiti più gravi: quasi tutti i casi confermati hanno richiesto l’ospedalizzazione e il decesso è avvenuto in 1 caso di listeriosi su 5 e in 1 caso di WNV su 10.
Il rapporto EFSA-ECDC riporta inoltre dati su zoonosi non prioritarie in UE, il cui monitoraggio varia da Paese a Paese in funzione della situazione epidemiologica quali Toxoplasma gondii, rabbia, Coxiella burnetii (febbre Q), e tularemia.
Listeria monocytogenes è l’agente infettivo più dannoso: da solo è stato responsabile di oltre la metà dei decessi registrati in corso di epidemia (31 casi, 10 in più rispetto al 2018 e 29 in più rispetto al 2017).
"Il rischio che ci preoccupa maggiormente nella trasmissione del virus della Psa – spiega Francesco Feliziani, Responsabile di laboratorio presso il Centro di referenza per le pesti suine presso l’Istituto zootecnico sperimentale dell’Umbria e delle Marche, – è rappresentato dalla contiguità, anche se fortunatamente abbiamo ancora una sorta di cuscinetto costituito dall’Austria e dalla Slovenia che al momento ci difende dai Paesi europei infetti. Di certo quello che sta avvenendo in Germania non può farci stare tranquilli e nonostante l’Italia abbia a disposizione un Piano di emergenza elaborato dai ministeri delle Politiche agricole e dell’Ambiente, organizzato e coordinato che permette ai Servizi veterinari di intervenire immediatamente laddove si dovesse manifestare una segnalazione, occorre adottare tutte le misure preventive previste a iniziare dalla difesa delle nostre periferie, affinchè i cinghiali potenzialmente infetti non entrino in contatto di rifiuti alimentari e tanto meno vengano alimentati dalle persone, senza dimenticare l’applicazione rigorosa in allevamento di tutte le misure di biosicurezza affinchè il virus non entri in porcilaia”.
Come per il CovSars2, anche per la Psa l’unica soluzione al momento è rappresentata dalla scoperta di un vaccino che ancora non c’è. Eppure qualcosa all’orizzonte si sta delineando.
La ministra Teresa Bellanova ha firmato il decreto che introduce il logo nutrizionale facoltativo denominato NutrInform Battery, la risposta italiana al Nutriscore francese, “finalizzato – si legge in una nota delle Politiche agricole – a rendere più facilmente leggibili da parte dei consumatori le informazioni nutrizionali degli alimenti e ne sancisce le norme relative al suo utilizzo”.
Una volta firmato da gli altri due ministeri competenti – Sviluppo economico e Salute – il provvedimento sarà inviato per la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e quindi le aziende alimentari potranno volontariamente scegliere se adottare sul frontespizio delle confezioni questo tipo di “riassunto” nutrizionale.
Quasi due aziende su tre nell'industria alimentare attendono un calo del fatturato del 2020.
Per effetto delle dinamiche innescate dal lockdown (tra cui il sostanziale blocco dell’Horeca, i cui consumi valgono il 34% del totale food&beverage Italia) e delle incertezze legate all’evoluzione dell’emergenza sanitaria, solo il 20% delle aziende prevede un incremento del giro d'affari in Italia e all’estero; per il 15% il turnover sarà in linea con l’anno precedente, mentre per il 62% l’anno si chiuderà con una contrazione delle vendite che, per il 38% supererà il 15% in valore.
Secondo Ansa: "Le cosiddette ghost kitchens, le cucine fantasma, ossia strutture per cucinare che producono cibo solo per la consegna, senza aree per mangiare sul posto o dedicate ai clienti, potrebbero creare un'opportunità globale di $ 1 trilione di dollari entro il 2030, secondo l'analisi Euromonitor di luglio 2020, che considera questo settore parte in accelerazione di un nuovo ecosistema in cui rientrano anche i virtual restaurants, ristoranti virtuali di marche alimentari che esistono solo online senza luoghi fisici".
Ma cosa prevede la normativa per i ristoranti virtuali?
Nel caso si voglia aprire un “ghost restaurant” o “ristorante virtuale” l'iter è davvero semplice per chi già possiede un locale a norma, tradizionale. In questo caso basta creare la nuova “insegna virtuale”, decidere il proprio menù e affiliarsi a una qualche piattaforma di food delivery.
Chi invece decide di avviare una nuova attività di “dark kitchen” cioè una cucina dove preparare i cibi solo per le consegne online, senza un vero ristorante tradizionale alle spalle, deve partire da zero. L’operatore deve notificare la sua attività attraverso il SUAP del Comune di appartenenza evidenziando la voce “Produzione di alimenti in cucina domestica”.
In sintesi è necessaria una SCIA sanitaria per i requisiti dei locali come previsto dal Regolamento CE n. 852/2004.
Con un decreto interministeriale, sottoscritto dai ministri dell'Agricoltura, Sviluppo economico e Salute, è arrivato il via libera all'etichetta con l'indicazione di provenienza su salami, mortadella, prosciutti e culatello "per sostenere il vero Made in Italy e smascherare l'inganno della carne tedesca o olandese spacciata per italiana".
Il decreto prevede che i produttori indichino in maniera leggibile sulle etichette dei salumi le informazioni relative a: